Storie di bimbi e genitori speciali che hanno scelto di offrire la loro esperienza a tutti voi.


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La gravidanza
Ho saputo di essere incinta l'11 ottobre 2002. Ero felicissima! Cinque giorni dopo ho avuto la prima minaccia di aborto, mi sono sdraiata immobile sul divano e ho cominciato a prendere la vasosuprina. Dopo poco ho avuto una seconda minaccia, ho continuato a stare immobile, ho continuato con la vasosuprina e ho aggiunto il progesterone. Tutto sembrava andare meglio, il 7 novembre ho fatto un controllo ed era tutto ok..., l'8 ero al pronto soccorso per una nuova minaccia più forte delle altre. Mi hanno ricoverato e per tutta la notte non ho fatto altro che pregare, avevo paura che con il sangue se ne stesse andando anche mio figlio. Fortunatamente l'emergenza è rientrata e dopo un appassionante week-end in ospedale sono tornata a casa. Inutile dire che per i tempi a seguire il mio divano sarebbe stato il mio mondo.
Mi sono annoiata e sentita sola in quelle interminabili giornate passate immobile, ma in fondo avevo tanta gente che mi veniva a trovare e ripensandoci adesso quelli sono stati i mesi (2 e mezzo) più facili e belli della mia gravidanza. E poi mio figlio era ancora lì, nella mia pancia, e dopo la paura che ci aveva fatto prendere questa era la sola cosa importante. Speravo di poter uscire per Natale, per andare a casa dei miei e alla messa di mezzanotte e così è stato (la ginecologa mi aveva detto che ormai il pericolo era passato), e anzi sono uscita pure l'ultimo dell'anno, traslocando sul divano dei miei amici! Ero contenta e convinta che d'ora in poi sarebbe andato tutto bene. Il 4 gennaio mi sono svegliata terrorizzata, muovendomi nel letto ho sentito che avevo delle perdite. Oh, no! Ero convinta di avere un'altra minaccia, così mi sono sentita molto sollevata quando ho visto che non si trattava di sangue ma di una strana perdita trasparente. Ho pensato ad una piccola incontinenza, o a un'infezione e ho cercato di tranquillizzarmi supportata da Antonio (mio marito) e da mia mamma. Ma non ero per niente tranquilla. Ogni tanto mi faceva male la pancia, ho pensato che fosse colpa dei pantaloni ormai troppo stretti. Il giorno dopo, però, le cose non andavano meglio, avevo ancora perdite e dolori, così sono andata al pronto soccorso per la terza volta dall'inizio della gravidanza (ero a 4 mesi esatti, 17 settimane + 3). Mi ero convinta che si trattasse di un'infezione e mi sforzavo di sembrare rilassata, ma non mi sono stupita poi molto quando la faccia del medico che mi visitava è diventata d'un tratto scura: "è liquido amniotico". Che cosa? Non capivo. In quel momento nostro figlio era morto per tutti, ma non per me e Antonio. Mi ricoverarono nel reparto di ostetricia, e non in Fisiopatologia prenatale dove vengono seguite le gravidanze con problemi, perché erano convinti che in breve si sarebbe avviato il travaglio con conseguente aborto. Non potevano immaginare la determinazione di quello scriciolino che era nella mia pancia! Ho pianto tutta la notte, avevo contrazioni e odiavo il liquido che sentivo scorrere via da me. Il giorno dopo un medico, gran luminare molto quotato, sentenziò che la mia gravidanza "non era destinata a progredire", avevo rotto le acque e il liquido amniotico scarseggiava. La prima settimana è stata dura, avevo le contrazioni, il miolene mi dava tachicardia e stavo male ogni notte. Mi facevano ecografie tutti i giorni, la quantità di liquido amniotico variava da 0 a 3 AFI (l'indice del liquido amniotico) mentre avrebbe dovuto essere più di 10. Il mio corpo continuava a produrre liquido ma evidentemente la rottura del sacco amniotico era bassa e io continuavo incessantemente a perderlo. A una settimana dalla prima visita, il grande luminare me ne fece una seconda. "La situazione è difficile, è meglio che chiami suo marito e ne parliamo". Davanti a due testimoni ci ha caldamente consigliato l'aborto terapeutico perché il bambino non aveva nessunissima possibilità di sopravvivenza e portando avanti la gravidanza io avrei rischiato la vita: c'era rischio di infezione, distacco di placenta, non so quali altri catastrofi. Per fortuna oltre ai luminari ci sono anche i bravi medici e io nel reparto dov'ero ricoverata ne ho incontrati molti. Il caporeparto ha ridimensionato i rischi e ha tenuto un'istrionica tirata sul fatto che la medicina non è fatta di statistiche, che ogni caso è a sé. Io non avevo proprio voglia di morire a 24 anni ma non volevo nemmeno abortire. Per la mia fede cristiana e per il modo in cui avevo vissuto fino a quel momento, abortire avrebbe significato un po' morire, mi sarei sentita incoerente e volevo avere fiducia in quel Dio che mi aveva donato quel bimbo tanto desiderato. Di comune accordo con mio marito ho deciso di andare avanti. I medici del reparto hanno detto che le possibilità per il bambino erano scarsissime ma che avrebbero fatto tutto ciò che occorreva per preservare la mia salute e appoggiare la mia decisione. Intanto la gravidanza procedeva, il cuore di mio figlio batteva, ma la grossa incognita erano i polmoni che si formano proprio grazie al liquido amniotico. Il mio era il primo tentativo di gravidanza a secco! Ogni tanto perdevo sangue, poi smettevo. Avevo smesso di preoccuparmi del valore AFI, ormai mi ero convinta che il mio bimbo, che aveva cominciato a prendere a calci la mia pancia, aveva escogitato qualche modo per farne a meno. Ridevo pensando all'immagine di un piccolo feto con la bocca aperta per bere ogni goccia di liquido che arriva dall'alto, evitando inutili sprechi! Intanto, superata la ventiquattresima settimana di gravidanza, avevano cominciato a prendere in considerazione il fatto che dentro di me c'era un bimbo e cominciarono a prenderne le misure e a stimarne il peso: la prima volta era sui 400g. Il 5 marzo seppi che quello che io ho fino ad adesso chiamato il mio bimbo era davvero un maschio, si sarebbe quindi chiamato Alfonso. Non tutte le notizie, però, erano così piacevoli. Al termine di un controllo, un'ecografista dalla faccia impenetrabile e dallo sguardo severo (credo che le selezionino apposta) ebbe la delicatezza di dirmi, dopo due mesi di ricovero: "Signora io non capisco cosa ci sta a fare lei qui, questo bambino è morto se nasce adesso, è morto se nasce a 9 mesi di gravidanza, è morto da quando lei è arrivata qui". Sono riuscita solo a balbettare: “Beh, possiamo provarci, almeno!?”. Per fortuna i medici del mio reparto erano di tutt’altra pasta! Ero stanca di stare in ospedale, avevo paura di stare male, avevo voglia di partorire per togliermi da quella situazione e allo stesso tempo avrei voluto aspettare ancora mesi. Un giorno, non mi ricordo neanche bene perché, mi prepararono per la sala operatoria, poi ci fu un contrordine, dovevamo guadagnare tempo, ma da lì in avanti ogni giorno sarebbe stato buono per partorire, pare che la situazione nel mio utero fosse ormai al limite.

È nato!

Guadagnammo 2 settimane! La mattina del 18 marzo mi sono svegliata col mal di schiena, mi sono accorta di perdere sangue e solo allora mi sono resa conto di avere contrazioni piuttosto forti. Mi hanno portato in sala travaglio direttamente col letto. Monitoraggio, ecografia, miolene in vena. Niente da fare, un altro pezzettino della mia placenta si era staccato, la situazione diventava rischiosa per me e poi, mi dissero, “ormai il bambino sarebbe stato meglio fuori dalla pancia che dentro”. Questa frase non mi era piaciuta, ma era evidente che ormai eravamo al dunque. Con taglio cesareo, alle 9:07 è nato Alfonso, a 27 settimane e 5 giorni. Io non l’ho sentito, ma ha pianto e i medici del mio reparto, che avevano spodestato l’équipe della sala operatoria perché volevano operarmi loro, mi hanno detto “è nato”, che voleva dire “è vivo”. Non ci fu nemmeno bisogno di rianimarlo e il suo papà battezzò Alfonso, come avevamo chiesto, visto che il battesimo di emergenza può farlo chiunque. Poi Alfonso fu impacchettato nella sua incubatrice e portato in TIN, seguito da Antonio. Uscita dalla sala operatoria ho trovato mia mamma esultante e commossa, lì si è sciolta tutta la tensione delle ore precedenti e sono scoppiata in lacrime. In reparto c’era aria di festa, un clima di esultanza fra tutti coloro che mi avevano accompagnato in questa vicenda dapprima scettici e un po’ distaccati, poi via via sempre più partecipi ed affettuosi. Antonio mi portò una polaroid di Alfonso, fatta prima che gli attaccassero i tremila tubi e sensori. Ero sollevata, non sembrava poi così piccolo! Pesava 915g (pensavo meno!), l’avevano intubato e dissero che le prime 72 ore sarebbero state le più critiche. Ricevetti un sacco di visite di amici e parenti festanti, io mostravo orgogliosa la mia polaroid, solo il giorno dopo avrei scoperto che a Neonatologia hanno macchine fotografiche truccate che ingrandiscono i bambini e li rendono più belli, quando vidi Alfonso non sembrava proprio quello della foto. La prima impressione della neonatologia fu quella di un ambiente che mi respingeva. Faceva molto caldo, il soffitto era basso, le luci troppo forti, mi sentivo soffocare. Altro che il mio bel reparto di ostetricia dove ormai mi sentivo come a casa! Antonio era già esperto, per me tutto era nuovo. Entrai nel box di Alfonso, guardai dentro l’incubatrice e rimasi scioccata. Dov’era il bimbo roseo della foto? Lì c’era al suo posto un microscopico esserino tutto nero, ingarbugliato in una miriade di fili, tubi e sensori. Il viso non si vedeva, era completamente coperto dai cerotti e dalla mascherina per proteggergli gli occhi dalla lampada per l’ittero. Pensavo che mi sarei commossa invece ero talmente sconvolta che non riuscii neanche a piangere. Passarono le fatidiche 72 ore e Alfonso era ancora vivo. Dopo un paio di tentativi lo riuscirono ad estubare prima che compisse una settimana, nel suo caso l’intubazione era estremamente rischiosa. Il mio bimbo fece così il suo primo incontro con quelle che sarebbero state delle fidate compagne di viaggio, le nasocannule CPAP.

La saturazione era piuttosto ballerina, ogni tanto si verificavano delle apnee oppure capitava che il cuore rallentasse pericolosamente. Sembrava proprio che Alfonso non ce la facesse a ricordarsi di respirare e intanto fare battere anche il cuore! In particolare quando lo prendevo in braccio per la marsupio terapia si rilassava troppo e andava in bradicardia o desaturava, e allora via di pizzicotti e pacchette sul sedere. Mi passava un po’ la voglia di prenderlo in braccio. Quando non era stabile potevo infilare la mano nell’incubatrice e accarezzarlo, lui mi stringeva il dito con la manina. Era incredibile che fosse così piccolo e allo stesso tempo così perfetto. Aveva delle bellissime orecchie, le ditina lunghe lunghe e perfino le unghiette. Mi faceva impressione solo guardarlo in faccia; in realtà vedevo solo la bocca e mi sembrava che si contraesse continuamente in smorfie di dolore. Allora gli appoggiavo una mano sulla testina e con l’altra coprivo tutto il corpo, mi piaceva l’idea di proteggerlo. Era piccolissimo e lo sembrava ancor di più perché aveva le gambine storte e le teneva piegate sulla pancia, stile yoga. Mi hanno spiegato che era un difetto che si sarebbe corretto da solo poiché ora il piccoletto poteva stendere le gambe mentre nel mio utero, senza liquido amniotico, la pressione che i miei muscoli esercitavano era troppo forte e lo aveva costretto ad assumere quella posizione. Quando entravano gli infermieri, specialmente quando di turno c’erano quelli meno aggraziati, mi voltavo dall’altra parte, non riuscivo a sopportare di vederlo soffrire né tanto meno di sentire quel miagolio che era il suo pianto. Ormai ero pratica della TIN, sapevo il significato dei numeri sul monitor, appena arrivavo controllavo il peso di Alfonso (che scese fino a 716g), quanto mangiava (col sondino nasogastrico) e la quantità di ossigeno di cui aveva bisogno. Le prime due settimane stavo in ospedale solo un paio di ore al giorno, ero ancora distrutta dalla gravidanza e tentavo invano di spremere qualche goccia di latte (tanto Alfonso mangiava solo 2g a pasto, quindi ne bastava poco!). Dopo 3 settimane di cocciuti tentativi mi è venuta la montata lattea: ero sbalordita! Dopo un mese Alfonso fu trasferito in sub-intensiva, ormai era chiaro che il suo svezzamento dall’ossigeno sarebbe stato lungo, ma non aveva avuto altre particolari complicazioni. Le percentuali di ossigeno di cui aveva bisogno erano sempre molto alte; odiavo con tutto il mio cuore l’allarme del monitor che suonava quando la saturazione scendeva sotto 85, certi giorni era un continuo. I medici hanno definito il caso di mio figlio assolutamente senza precedenti, non avevano mai avuto un bambino che fosse rimasto 10 settimane in utero in assenza di liquido amniotico e proprio nel periodo più importante per la formazione di molti organi. Alfonso era sopravvissuto ma i suoi polmoni portavano il segno delle condizioni estreme nelle quali era stato. Il grado della sua broncodisplasia è estremamente severo non tanto a causa della prematurità, quanto perché per l’assenza del liquido amniotico i polmoni non hanno potuto dilatarsi. In alcune zone sono chiusi e l’aria non riesce ad entrare, in altre sono troppo aperti, l’aria vi resta intrappolata ma non è utile per gli scambi gassosi a causa della mancanza di una successione regolare di alveoli. In parole povere se normalmente i polmoni hanno l’elasticità e la conformazione di una spugna, quelli di Alfonso sono più simili al legno. La sua situazione è definita border-line, cioè estremamente instabile, basta pochissimo per spezzare i delicati equilibri che regolano la sua capacità respiratoria; abbiamo avuto modo di sperimentare durante il periodo autunno-inverno come quello che a un bambino sano non provoca neanche un raffreddore mette invece nostro figlio in grave difficoltà.
Prendere in braccio Alfonso era un’impresa che richiedeva la collaborazione di 3 persone, bisognava aprire l’incubatrice, tirare fuori lui e i tubi, stare attenti che nulla si staccasse e poi stare seduti immobili perché il tubo era lungo neanche un metro e perché la saturazione risentiva di ogni minimo spostamento. I giorni dei check up completi erano i peggiori; ogni volta speravo che dagli esami risultasse qualche miglioramento, in particolare dalla lastra ai polmoni, invece niente, sempre tutto uguale, e intanto i giorni passavano. Delle volte mi girava la testa e mi sentivo lo stomaco attanagliato dall’ansia, in tutto il reparto l’allarme che suonava era sempre quello di mio figlio. Un giorno Alfo cominciò a piangere inconsolabilmente e l’infermiera si accorse che aveva un’ernia inguinale. Fortunatamente il chirurgo riuscì a ridurla manualmente e l’intervento chirurgico poté essere rimandato a data da destinarsi, nella speranza che intanto Alfonso crescesse e si svezzasse dall’ossigeno. Intanto molti bambini che erano stati ricoverati con lui se ne erano andati a casa, quasi tutti erano già in normali lettini, nessuno aveva le CPAP, anche quelli che erano nati più piccoli ora pesavano di più. Il giorno previsto per la sua nascita, il 13 giugno, Alfonso pesava esattamente 2 kg. Ma non era del peso che mi preoccupavo, bensì della situazione polmonare. Erano stati fatti dei tentativi di togliere le CPAP e lasciare Alfo con l’ossigeno in culla, ma non ce l’aveva mai fatta. Pareva invece che riuscisse a mantenere una buona saturazione, anche con poco ossigeno (1/2 litro), con gli occhialini (o nasocannule, o baffetti o comunque li si voglia chiamare!). Il 28 maggio Alfonso uscì dall’incubatrice. Non mi sembrava vero! Il mio bimbo era in un lettino normale e grazie agli occhialini potevo prenderlo in braccio da sola e fare anche qualche passo (il tubino è lungo un paio di metri)! Un altro passo verso la normalità furono i primi tentativi di pasti con il biberon. Anche in questo caso il percorso è stato lungo e lento, all’inizio Alfo riusciva a ciucciare solo un paio di grammi, poi 5, poi 10 e così via fino ai pasti interi, anche se decisamente non è mai stato un mangione. In più da un po’ di tempo il livello dell’emoglobina nel sangue era stabile e accettabile e non ci fu più bisogno di trasfusioni (ne erano state fatte 6). Si cominciò a parlare di dimissione protetta, cioè di andare a casa con l’ossigeno. Ero felicissimissima, la gioia era tanta che non ero neanche preoccupata. Del resto l’alternativa era rimanere in ospedale per un tempo indefinito. Alfo desaturava ancora e aveva bradicardie quando lo cambiavo e quando mangiava, ma ormai avevo imparato a conoscerlo e non mi preoccupavo più di tanto. Cominciavo anche ad essere molto stanca, passavo le mie giornate interamente in ospedale, più Alfo cresceva più mi dispiaceva lasciarlo solo perché sapevo che avrebbe pianto. Mi piaceva un sacco coccolarmi il mio bimbo, era bellissimo, gli occhialini ormai non li vedevo più. Finalmente venne il grande giorno, il 4 luglio, dopo 3 mesi e mezzo di ricovero, ci portammo a casa Alfonso, un fagottino di 2335g, era come se fosse nato in quel momento. Quel giorno, per la prima volta, i nonni e gli zii poterono vedere quel patatino di cui avevano tanto sentito parlare!

A casa (o meglio, avanti e indietro dall’ospedale!)
La gestione dell’ossigeno a casa non era poi così difficile (i dettagli li scriverò per la sezione della dimissione con ossigenoterapia), il vero problema era che Alfonso faceva una gran fatica a mangiare e piangeva ininterrottamente. Siccome sono stata male ho dovuto mandare via il latte e il passaggio a quello artificiale ha fatto precipitare la situazione: delle volte Alfo mangiava anche solo 5g, se ne mangiava 50 facevo festa. In compenso con la respirazione non avevamo problemi, con ½ litro di ossigeno e anche meno la saturazione rimaneva alta. Uscivamo a fare passeggiate nel parco la mattina presto e nel tardo pomeriggio, con la bombola portatile e il saturimetro spento (ogni tanto davamo una controllatina!). L’estate più calda degli ultimi 200 anni non ha certo facilitato la respirazione di Alfonso, ma i brividi li abbiamo avuti lo stesso a causa del terremoto (fuga notturna in macchina con la bombola) e soprattutto del black out, visto che quando siamo in casa è una macchina che funziona elettricamente a fornire ossigeno ad Alfonso. Il tutto è successo di notte, in un raro momento in cui stavamo dormendo, ed è stato proprio Alfo a dare l’allarme mettendosi a piangere perché non gli arrivava ossigeno ancora prima che desaturasse e suonasse l’allarme del saturimetro; di corsa abbiamo scollegato sensore e occhialini, siamo andati in sala e abbiamo utilizzato la bombola dell’ossigeno liquido. Tornando alla questione mangiare, la situazione era diventata insostenibile, Alfonso piangeva continuamente, in agosto era cresciuto 300g e a settembre era calato. Pretendemmo un ricovero per fare esami sul reflusso gastro-esofageo. In 15 giorni furono fatti diversi accertamenti (ecografia, tubo digerente), una consulenza cardiologica (Alfonso era tachicardico) e quel furbetto del nostro bimbo riuscì a prendersi una bronchite e raddoppiò il fabbisogno di ossigeno. Uffa! Il 17 ottobre eravamo di nuovo a casa, il 22 eravamo di nuovo in ospedale. Avevamo avuto un piccolo incidente nella gestione dell’ossigeno; dopo aver riempito d’acqua l’umidificatore (che umidifica l’ossigeno per non seccare le secrezioni), non abbiamo riavvitato bene il bicchiere e l’ossigeno si disperdeva, ma noi non ce ne eravamo accorti!!! Alfonso è diventato blu, poi nero, non piangeva più, non reagiva a nessuno stimolo, aveva la testa abbandonata all’indietro, la bocca aperta, gli occhi rovesciati. Dopo aver chiamato l’ambulanza correvo per casa come una pazza urlando che mio figlio non poteva morire e intanto mi mettevo le scarpe e raccattavo qualcosa da portare in ospedale. Intanto Antonio cercava disperatamente di far riprendere Alfonso. Improvvisamente si accorse che non si sentiva il solito sibilo dell’ossigeno, non arrivava ossigeno!! D’istinto ho staccato gli occhialini da quell’umidificatore e li ho attaccati a quello della bombola aprendo al massimo il rubinetto dell’ossigeno. Alfonso si riprendeva!!!!! Quando arrivò l’ambulanza, dopo 4 eterni minuti, il peggio era passato. Ci portarono ugualmente in ospedale per un controllo e ci restammo una notte in osservazione. Ebbero la furbizia di metterci in camera con una bimba con catarro e gola rossa (senza dircelo!), così, tornati a casa, il giorno dopo Alfonso aveva la bronchite. Eravamo arrabbiatissimi. Per fortuna quando siamo a casa possiamo contare sull’appoggio di una pediatra eccezionale, scrupolosa e disponibile oltre ogni immaginazione. Alfonso non ha mai voluto farle mancare il lavoro! La mattina del 30 ottobre Alfonso, che intanto continuava a non mangiare nonostante la terapia antireflusso, piangeva più disperato del solito. Pensavo ad un forte mal di pancia visto che è anche molto stitico, ma poteva mio figlio avere qualcosa di così banale? No! Cambiando il pannolino mi sono accorta di un salsicciotto sull’inguine. L’ernia era uscita un’altra volta. Era il 30 ottobre e per la terza volta nello stesso mese ci presentavamo al pronto soccorso. Durante la mattinata nessun chirurgo riuscì a ridurre manualmente l’ernia, dovevano ricoverarci. Chiedemmo e ottenemmo di essere messi in neonatologia (anche se Alfonso aveva 8 mesi) per evitare di prendere un’altra bronchite al reparto lattanti, visto che ancora non era del tutto passata quella precedente. Nel pomeriggio un chirurgo ridusse manualmente l’ernia che poi però uscì di nuovo. Una rapida ecografia e poi il verdetto: bisogna operare. L’operazione era in sé una cavolata, ma Alfonso doveva essere intubato e avrebbe rischiato la vita a causa dell’anestesia. Diedi la notizia al telefono, piangendo, a mia madre e le chiesi che avvertisse gli amici della parrocchia perché pregassero per Alfonso. L’anestesista fu molto rassicurante: “il rischio è elevatissimo”, disse; era molto agitata e preoccupata. Il chirurgo ci spiegò l’intervento e ci fece firmare il consenso. Avevo paura, ma avevo anche imparato ad avere fiducia nella forza di mio figlio ed ero sicura che non sarebbe morto. Dopo un’ora e mezza uscì l’anestesista visibilmente sollevata, era andato tutto bene. Evviva! Quando dieci minuti dopo uscì anche il chirurgo, era tutto sudato e sembrava piuttosto stanco. Ci disse che era stato molto faticoso, che l’anatomia era confusa, l’intestino tumefatto, l’anestesista gli faceva fretta…ma alla fine ce l’aveva fatta.. Alfonso passò solo una notte in rianimazione. Speravamo che ora avrebbe fatto meno fatica ad andare di corpo e si sarebbe così risparmiato qualche desaturazione. Speravamo, appunto. Non fu così, in compenso era un periodo che Alfo mangiava un po’ di più e nonostante l’operazione pesava 3800g. Il 4 novembre fummo dimessi. La mattina dopo, a casa, Alfonso faceva fatica a respirare e durante la visita della pediatra divenne cianotico. La saturazione precipitò e con essa anche i battiti. Stava andando in arresto cardio-respiratorio. Dissi a mia mamma di chiamare l’ambulanza, intanto la pediatra aveva eseguito respirazione bocca a bocca e massaggio cardiaco e Alfo si era un po’ ripreso anche se era ancora molto affaticato e la saturazione non superava i 90 con 5 litri di ossigeno. Arrivò l’ambulanza. Mi agitai tantissimo, mi sembrava che gli ambulanzieri agissero un po’ a casaccio perché non conoscevano la nostra attrezzatura e non volevano ascoltarmi. Alla fine riuscirono a sistemare Alfonso sull’ambulanza, mi fecero sedere davanti con l’autista e partimmo a sirene spiegate, cosa che mi mise ancora più ansia. Intanto avevo avvertito Antonio, ci saremmo trovati direttamente in ospedale. Durante il viaggio (pochi minuti per attraversare Bologna!) le condizioni di Alfonso rimasero stazionarie ma all’arrivo al pronto soccorso non era messo molto bene. Si riprese dopo un areosol di adrenalina e ci sistemarono in una stanza, da soli, del reparto lattanti. Col passare dei giorni le cose migliorarono, il fabbisogno di ossigeno scendeva anche se da ottobre non era più tornato ai livelli dell’estate (ora si era assestato sui ¾ di litro – 1 litro). Imbottirono Alfonso di farmaci (adrenalina, broncodilatatori, cortisone) e lo mandarono a casa dove, senza tutti quei farmaci, cominciò ad avere presto difficoltà. Una settimana dopo, sempre in presenza della pediatra, ebbe un’altra crisi respiratoria e dovemmo chiamare l’ambulanza (cominciava a diventare una brutta abitudine!). Abbiamo insistito perché ci portassero al solito ospedale anche se era dall’altra parte della città e invece l’ambulanza ci ha portato all’ospedale più vicino col risultato che il medico del pronto soccorso ci ha chiesto cosa ci facevamo lì se il bimbo era seguito da un’altra parte. Altro trasporto in ambulanza fino al solito ospedale dove ormai, come dice Antonio, ci conoscono anche le piante. Altro ricovero di 5 giorni, solita dose massiccia di farmaci, fabbisogno di ossigeno in diminuzione (fino a ¾ di litro). Tornati a casa la pediatra, vista la mancanza di riferimenti, ha messo in piedi da sola con un po’ d’improvvisazione una cura cortisonica prolungata in modo da cercare di evitare di finire in ospedale tutte le settimane. Per fortuna che c’è lei! Pochi giorni dopo però la pediatra ci avverte che si assenterà per un po’ per problemi di salute. Ci siamo ritrovati soli. Le sostitute appena ascoltavano i polmoni di Alfonso volevano farlo ricoverare. Noi abbiamo fatto di testa nostra, ormai conosciamo bene nostro figlio, e abbiamo rispolverato vecchi appoggi, la dottoressa della neonatologia che segue le dimissioni protette. Così con qualche visita in ospedale da lei siamo riusciti ad evitare ricoveri per tutto dicembre e parte di gennaio.

Il problema mangiare continuava e una diarrea aveva ulteriormente indebolito Alfonso; eravamo però abbastanza soddisfatti dei 4950g raggiunti a quasi dieci mesi di età. Finite le feste Alfonso si è beccato quello che sembrava un raffreddore. Il fabbisogno di ossigeno era ballerino (da ¾ di litro a 1.5 litri), Alfonso era molto affaticato, non riusciva a dormire più di un quarto d’ora di fila (e dopo un mese e mezzo di questi ritmi io e Antonio eravamo stremati), abbiamo dovuto aumentare il cortisone, l’aerosol con broncodilatatori ci faceva ormai compagnia da mesi. Volevo fare di tutto per evitare di portarlo in ospedale dove temevo che si sarebbe solo ammalato di più, sapevamo infatti che il reparto lattanti scoppiava e non avremmo mai avuto una camera da soli. E poi avevo un disperato bisogno di normalità, ero stanca morta, avevo i nervi a pezzi. Desideravo solo un po’ di tranquillità, volevo un bimbo che stesse bene, che non mi mandasse giù di testa ad ogni pasto, che non avesse continuamente crisi respiratorie (ormai Alfonso ne aveva 6-7 al giorno). Non potevo più lasciarlo a nessuno (d’estate era successo che io e Antonio fossimo usciti insieme per 2-3 ore lasciando Alfonso a mia mamma), da ottobre la respirazione non era più stata stabile e bisognava essere pronti ad intervenire col va e vieni (mascherina per l’ossigeno) e a non impressionarsi se Alfo diventava blu. Passavo con mio figlio 24 ore su 24, le comunicazioni con mio marito somigliavano sempre più al passaggio di consegne fra infermieri, non potevo ricevere amici in casa per il rischio che attaccassero qualcosa a quel catalizzatore di germi e virus che è mio figlio.

Sigh,Sob!
Il 15 gennaio, con un fabbisogno di ossigeno di 3 litri e Alfonso in evidente difficoltà, dovemmo desistere. Chiamammo i nostri amici del 118 chiarendo subito dove avrebbero dovuto portarci e partimmo per l’ennesima volta con destinazione ospedale (del resto da ottobre quelle erano le uniche uscite di Alfo e lui sembrava abbastanza soddisfatto e molto interessato). Ci sistemarono in una camera con una bimba che era lì perché tanto per cambiare non voleva saperne di mangiare ( e guarda caso anche lei era nata prematura). Dopo i primi aerosol di adrenalina sembrava che Alfonso stesse meglio, ma per precauzione chiedemmo di restare in due per quella notte, io e mia mamma. Per fortuna, perché durante la notte la situazione precipitò. Ci fu una prima crisi all’una, poi dalle sei in avanti Alfonso, con non so quanti litri di ossigeno negli occhialini più l’ambu, non riusciva ad avere una saturazione sopra gli 85 ed anzi stava più che altro intorno a 65-75. Chiamarono la rianimazione pediatrica, fecero una lastra ai polmoni, ci fu un balletto di medici intorno al mio bimbo che proprio non ce la faceva più. Intanto era arrivato Antonio e siamo stati io e lui ad aiutare la dottoressa della rianimazione visto che gli infermieri del reparto erano un po’ stupiti nel vedere quello che avevamo sempre cercato di spiegargli, cioè che con Alfonso bisogna procedere coi piedi di piombo perché quando va in crisi sta veramente male. Quando la situazione diventò ingestibile trasportarono Alfonso in rianimazione. Diedi un bacino al mio patatino chiedendomi se avrei potuto farlo ancora. La porta si chiuse e noi restammo fuori in attesa di notizie. Chiamammo i nostri genitori e gli amici della parrocchia, c’era bisogno di un concentrato di preghiere. Date le circostanze eravamo anche abbastanza tranquilli, il nostro bimbo ci aveva abituato bene. Dopo 3 interminabili ore ci hanno fatto entrare, senza vedere Alfonso. L’angoscia mi ha assalito quando prima di parlarci la dottoressa è andata a cercare un testimone. Non dovevano esserci belle notizie. Avevano sperato di non dovere intubare Alfonso per non rischiare di danneggiare i polmoni, ma erano stati costretti a farlo. E anzi, con quasi il 100% di ossigeno e un sostanzioso aiuto del respiratore Alfo non era stabile. La situazione era molto critica, c’era pericolo di morte. Io e Antonio siamo usciti e abbiamo sceso le scale dell’ospedale ripetendoci a vicenda che non sarebbe morto, un po’ perché ci credevamo veramente e un po’ per farci coraggio. Per una settimana ci siamo sentiti ripetere almeno 3 volte al giorno che nostro figlio poteva morire, che aveva un’infezione ma non si capiva di che tipo, che stavano facendo tutto quello che c’era da fare ma che con la sua broncodisplasia di base bastava poco per far degenerare la situazione. Forse sembravamo troppo tranquilli, fatto sta che ogni volta che un medico ci vedeva ci chiedeva se ci rendevamo conto che nostro figlio poteva morire. In rianimazione si può stare solo dalle 18 alle 20 e poi non è detto, dipende se ci sono emergenze. Io cercavo di godermi al massimo quel tempo, accarezzavo il mio bimbo, gli parlavo con tranquillità ma intanto scrutavo monitor, flebo e quant’altro. Ero angosciatissima per la sofferenza di mio figlio, mi sembrava persino peggio dei primi giorni in TIN, e poi adesso era grande, si rendeva conto di tutto. Per sedarlo avevano dovuto usare dosi di farmaci quasi da adulto (non molla il mio bimbo!!!), i medici erano preoccupati per quella agitazione, io ne ero rassicurata, il mio patatino lottava ancora! Finalmente un cardiologo mise a punto una terapia per contrastare la tachicardia di cui Alfonso ha sempre sofferto e per tenere sotto controllo la pressione che avevamo scoperto essere troppo alta. Il suo cuore in sé era sano, il problema è che era costantemente sotto sforzo a causa della difficoltà respiratoria, per questo Alfo negli ultimi giorni aveva avuto 4 arresti cardiaci che avevano fatto disperare di poterlo salvare. Dopo 10 giorni Alfonso venne estubato, la fase critica era finita e gli stessi medici che 3 giorni prima disperavano per la sua vita ora volevano dimetterlo. Io e Antonio eravamo decisamente perplessi e insistevamo per aspettare a trasferirlo. Tornò la febbre e una Phmetria fatta per scrupolo evidenziò che il problema del reflusso era tutt’altro che risolto: l’esofago e le vie respiratorie erano molto irritate dal reflusso del cibo e dei succhi gastrici (ma non si poteva fare ad ottobre questo esame??? Il mio bimbo ha sofferto per dei mesi!!). Alfonso inalava parte di ciò che mangiava e ciò non lo aiutava certo a respirare meglio. Bisognava intervenire. Come? Con un intervento chirurgico. L’anestesia ci preoccupava meno questa volta, il mio bimbo ne aveva passate ben di peggio e poi l’intervento in laparoscopia era relativamente semplice e veloce. Andò tutto bene, Alfonso venne intubato ed estubato senza complicazioni. Dopo sei giorni e un’altra intubazione di 24 ore, il nostro piccolo (ora pesava 4040g a 10 mesi e ½) ma grande eroe lasciava il reparto di rianimazione per trasferirsi in una stanza di trattamento post-intensivo del reparto di chirurgia pediatrica. Aveva passato 3 settimane in rianimazione tra mille torture ed ora era terrorizzato. L’avevano messo dentro alla tendina di Hughes (si scrive così?) ovvero era dentro, fino al bacino, ad una cupola di plexiglas dove la concentrazione di ossigeno era molto alta. Giocava col carillon che gli avevamo messo dentro e sussultava ogni volta che lo toccavo o mi muovevo troppo velocemente. Ero angosciata nel vedere i segni che 3 settimane di rianimazione avevano lasciato e mi chiedevo quanto tempo ci sarebbe voluto per cancellarli. Ma il mio bimbo è eccezionale anche in questo, dopo 2 giorni faceva commuovere tutti con i suoi sorrisoni. Non ci potevo credere, dopo essere uscito dalla “campana” e aver rimesso gli occhialini, Alfonso era tranquillo e giocava serenamente, non dovevo tenerlo in braccio 24 ore su 24, non mi dovevo sorbire un lamento continuo, probabilmente l’intervento gli aveva tolto il bruciore continuo che lo aveva sempre infastidito. Ma allora è questa la normalità?
L’unico neo è che non mangiava, e quindi non cresceva, ma non si può avere tutto dalla vita! Ripensandoci c’era un altro problema, quello delle flebo; le vene di Alfonso erano ormai troppo sfruttate da prelievi e quant’altro, così gli veniva una flebite ogni 2 giorni e tutte le volte bisognava chiamare un medico dalla rianimazione perché mettesse una nuova flebo. Il mio patatino piangeva (neanche tanto, ormai era abituato al dolore, sigh!) e io che mi sono sempre vantata di essere una mamma poco impressionabile capace di assistere con disinvoltura ad esami e prelievi, cominciavo a non riuscire a guardare quando infilzavano mio figlio, fino a che una volta mi sono sentita un po’ male: non ne potevo proprio più di vedere soffrire il mio bimbo. Come non detto. Dopo 10 giorni che eravamo in reparto mi sono accorta che Alfonso aveva il naso chiuso, e siccome ormai sono una mamma psicopatica, ho preteso che il chirurgo richiedesse una consulenza pediatrica. Sarò psicopatica ma conosco il mio pollo: rantoli diffusi, bisognava fare aerosol e riprendere gli antibiotici interrotti da ben 24 ore. In due giorni la situazione è precipitata, Alfo faceva molta fatica a respirare. Un pomeriggio, con saturazione a 97, è sbiancato, aveva uno sguardo molto lesso e non reagiva agli stimoli; il tutto è durato 1 minuto, ma era un campanello d’allarme. La sera ho lasciato mio marito a fare la notte e sono andata a casa convinta che mi avrebbe chiamato per dirmi che la situazione era peggiorata. A mezzanotte la telefonata è arrivata, Alfo era di nuovo in rianimazione. Ce l’avevano presentato come un ricovero preventivo, di breve durata, e invece il giorno dopo avevano dovuto procedere all’intubazione e le cose non si mettevano per niente bene. Due giorni dopo il capo-reparto ci ha convocato, alla presenza di 2 testimoni, per comunicarci che nostro figlio era grave (ma va! Non ce n’eravamo accorti!) e che era in pericolo di vita. Sono passate due settimane, Alfonso è ancora intubato ma il peggio sembra passato. Siamo arrivati all’oggi (8 marzo 2004, peso 4050g), sono convinta che il mio bimbo ce la farà anche stavolta, del resto lui è nato per smentire i medici! Spero di poter scrivere presto un lieto fine per questa lunga storia. Ah! Fra 10 giorni esatti Alfonso compie un anno!

Elisa
La mia e-mail è elisasisti@virgilio.it

pubblicato il 13 marzo 2004